PITTORE CERAMISTA SANREMO

Roberto Anfossi

Bricolage Selvaggio

di Sandro Ricaldone
Non il pensiero né il mondo attraverso gli occhi. Non il concatenarsi delle idee in una rappresentazione esatta; non l’irrompere delle cose: corpi, oggetti, luoghi. Un evolvere delle forme, piuttosto. E’ la mutevolezza, o forse un transito “da” e “verso”, per Roberto Anfossi, l’ineluttabile modalità del visibile’ : almeno questo se non altro. Per Roberto Anfossi, con maggiore evidenza rispetto ad altri, la deformazione più che un espediente o un metodo si rivela fattore connaturato. Gli esiti si pongono perciò su un piano non riducibile al riferimento originario (mai unico) né fissato una volta per sempre: valica il termine di partenza senza dimenticarlo e si protende a cogliere un approdo che solo momentaneamente può considerarsi definitivo. Il lavoro dell’artista non viene scandito in una sequenza di opere o di momenti creativi ma si dà come flusso persistente, evidenziato nel continuo impulso a riprendere i dipinti, rielaborandoli non di rado in maniera radicale. Nelle sue tele il rapporto con gli antecedenti storici non si attua sotto il segno della bloomiana angoscia dell’influenza, in una sorta di battaglia per l’affrancamento e l’originalità, né secondo la tesi di Stephen Greenblatt in un modello di negoziazione, intessuto di “prestiti estesi, … di reciproci incantamenti. Vi si riconosce, semmai, una disposizione cannibale, tesa ad inglobare la lezione di artisti consentanei e a farne esplodere (o, talvolta, implodere) la forza. L’artista si fa tramite della vitalità della pittura: scarta da un lato la ricerca dell’inedito e, su altro versante, l’obiettivo della perfezione, eludendo l’alternativa posta da Roger Caillois e tenta invece di evocarne il “significato conduttore'”. Così la misura bonnardiana riconosciuta da Gianfranco Bruno & negli “interni” dei primi anni ’80 e “l’affiorare inquietante di certe memorie di pittura esistenziale: dal Gericault degli ammalati di mente al Fautrier degli “Otages” o le “movenze grottesche e stravaganti, alla Ensor, rimarcate da Germano Beringheli a proposito della ritrattistica della seconda metà di quel decennio, si palesano scandagli di registri espressivi nei quali la fluttuante declinazione stilistica è incarnazione provvisoria di un’intensità sotterranea, allo stesso modo degli stilemi barocchi che animano le grandi tele del “periodo di Santa Brigida” o delle atmosfere acide di lavori come “Piera nello studio” (1997). Se la deformazione – al punto d’incrocio fra defigurazione rifigurazione, nelconfronto teso e talvolta lacerante con l’orizzonte delle espressioni moderne e contemporanee è la cifra dell’esperienza pittorica di Roberto Anfossi, una dimensione “altra”, non meno penetrante, viene dischiusa dall’ artista attraverso le “cassette” che inizia a produrre alle soglie degli anni ’90. Un secondo fuoco attorno al quale si dispone la sua attività, senza scissioni ma con un’immediatezza assoluta, che assottiglia gli schermi culturali sino a sfiorare una formulazione brut. In quest’ambito sembra marcato il distacco dell’autore da quella sorta di “tradizione breve” che nel ‘900 si è venuta costituendo attorno a questo spazio tridimensionale, delimitato ed autonomo, utilizzato per lo più in chiave oggettuale. Rispetto alla linea d’investigazione che si dirama dal movimento Dada (con i rilievi di Schwitters, Arp, Ernst) e dal polimaterismo futurista di Prampolini, transitando nel perimetro dell’invenzione surrealista, con il bretoniano object trouvé e le poetiche “costruzioni” di cimeli e illustrazioni realizzate da Joseph Cornell, per estendersi – oltre la metaestetica lettrista e gli assemblages New Dada o le vetrine accumulazioni pou belles novorealiste sino ai Fluxkits di Maciunas e le bacheche di cultori dell’arte antropologica come Claudio Costa, è soprat tutto nell’utilizzo di materiali di riporto che s’individua un punto di contatto con l’afabulazione anfossiana. Anche a questo proposito tuttavia regi striamo una fondamentale discrepanza. Laddove, in taluni dei casi cui s’è accennato, è la presenza incongruente dell’oggetto in quanto tale a costituire il tema portante, ed in altri (Cornell in specie) la composizione si regge sulla tensione metaforica determinata dal calcolato accostamento di elementi etero genei, l’intento di Anfossi è volto alla creazione di microcosmi fantastici abitati da suore e prelati, nanas ed educande, draghi e bambini. Figure ricorrenti che l’artista colloca fra altari e sotterranei, in stanze claustrofobiche ridondanti d’oggetti ricavati da frammenti di legno, brandelli di plastica, ossa, molliche, capsule di vetro e altri relitti. Né si tratta dunque “di un’esplorazione del banale, del quotidiano, dell’ordinario”; dell’uso di una “realtà del rango più basso in un gioco epidermico, solo in apparenza sconveniente; della messa in atto, in altri termini. di un’estetica trash o piuttosto della compilazione di un repertorio di horribilia. destinato a traumatizzare lo spettatore. A configurarsi è uno scenario più sottile e conturbante, la rivelazione improvvisa d’un paesaggio interiore, “devastato di simboli”‘°. Nel bricolage selvaggio di Anfossi si materializzano sogni e incubi che “l’angoscia comune a tutti gli uomini riconosce al primo colpo d’occhio”: una compresenza di oscenità e sublime, di tratti umani e parvenze bestiali, di estasi e oppressione capace di sprofondare lo spirito in uno sbandamento attraverso cui s’avvertono i contorni di un universo prossimo – al di là della sapienza tecnica dell’autore e della sua conoscenza profonda degli svolgimenti storici dell’arte – alle creazioni di artisti “irregolari”. Le corrispondenze a livello tematico ed iconografico riscontrabili, in particolare, con l’opera di Giovanni Battista Podestà, indagata da Lucienne Peiry in uno dei “Cahiers de l’Art Brut” ” e ripropostà di recente a Basilea dal Museo intitolato a Jean., sono molteplici e intriganti. Animali notturni e volti grotteschi, crocifissi, cartigli e persino certe modalità costruttive identificano universi contigui, benché non interrelati. La discesa nell’ interiorità porta evidentemente a rintracciare per vie differenti le figure di un immaginario condiviso – fra archetipo e proiezione soggettiva, fra linguaggio dell’istinto ed elaborazione artistica – non troppo discosto da quello goyesco, popolato di mezzane, di civette, mostri, monaci, streghe. Analogamente il corpus d’immagini proposto nel volume di Asger Jorn e Noél Arnaud, “La langue verte et la culle”, riconduce la lingua sfrontatamente esibita da più d’uno tra i feticci anfossiani ad una vasta famiglia che si estende dalla decorazione delle cattedrali romaniche alle immagini sacre indiane. Mentre il sistema di sonde che, sotto il vigile occhio divino, unisce la suora di “In estasi” (1993) al Sacro Volto trova un preciso riscontro tanto in “Distribution d’effluves avec machine cen trale et tableau métrique” (1916), opera di un altro artista marginale, Robert Gie, quanto nel collage di Max Ernst “La preparation de la colle d’os” (1921). La materia che Anfossi attiva in questi suoi polittici degradati, in cui l’horror vacui si converte in ferma architettura dell’eccesso, oltrepassa quindi le ossessioni individuali dell’artista per rappresentare una situazione epocale, tracciando l’allegoria d’una società compromessa, dove bisogno di redenzione e istanze trasgressive si fronteggiano senza scioglimento. L’Omaggio alle bambine e ai bambini del Limbo” (1989), che nel recente “Bambini in guerra” trova una replica più angosciata e drammatica, si mostra allora sin dal titolo insegna della vena profonda che anima la quète dell’artista da più d’un decennio: la messa a fuoco “della condizione di coloro che restano nell’imperfetto, nell’incompiuto, nell’ inquietudine: esseri indefiniti, non misurati dal tempo e neppure dall’. “Cioè” — secondo quanto annota Umberto Galimberti — “la condizione di noi tutti, che dopo aver vissuto una vita, non riusciamo davvero a identificarci con essa, ne percepiamo tutta la casualità, e andiamo con la memoria
a ripercorrere per un attimo tutte le vite non vissute, morte sul nascere come i bambini del limbo”.
Sandro Ricaldone Novembre 2004